Siamo nel marzo del 1977 e per le strade di Salerno compare un
manifesto con fondo bianco e scritte rosse rivolto all’Arcivescovo.
Il testo recita così:
“Vogliamo portare a sua conoscenza e denunciare alla cittadinanza
l’ignobile e vergognosa operazione che le parrocchie stanno
conducendo in questi giorni. Nelle parrocchie salernitane il prof.
Agostino Sanfratello tiene conferenze-dibattito contro la
legalizzazione dell’aborto. Vogliamo ricordare che Agostino
Sanfratello è un noto nazista di Ordine Nuovo come risulta dal
Corriere della Sera dell’agosto-settembre 1975. Le suddette
conferenze il Sanfratello le tiene all’insegna del terrorismo, in
sale parrocchiali piene zeppe di noti picchiatori fascisti, fra gli
altri Cipoletta e i fratelli Primo e Luca Carbone. Al di là delle
falsificazioni scientifiche e della informazione mistificata offerta
da diapositive aberranti, capziosamente commentate, intendiamo in
questo momento denunciare il clima di intimidazione in cui si
svolgono queste conferenze e lo scandaloso e intollerabile connubio
tra chiesa e nazifascisti. Invitiamo gli organi di stampa a
pubblicare questa lettera e le forze democratiche a prendere
posizione su questa inaccettabile situazione. I collettivi femministi
salernitani”
A fronte della querela presentata ai danni delle femministe che si
erano recate in tipografia, sono state in molte ad autodenunciarsi
per “il reato di cui agli art. 110-112-595 del codice penale e ai
sensi della Legge 8/2/1948 per avere, in concorso, mediante
affissione di un manifesto murale nelle vie cittadine di Salerno e
Cava dei Tirreni nel marzo 1977 offeso la reputazione di Agostino
Sanfratello, il quale veniva tacciato di nazismo ed indicato quale
aderente ad Ordine Nuovo, attribuendogli inoltre, il fatto
determinato di tenere conferenze contro la legalizzazione dell’aborto
all’insegna del terrorismo e delle falsificazioni scientifiche ed
informazioni mistificate”. Successivamente sono giunte altre
autodenunce, per un numero totale di 125 donne (45 donne saranno imputate in tutto). Il gruppo difensore
dei collettivi era composto dalle avvocatesse Maria Magnani Noia di
Torino, Tina Lagostena Bassi, da Roma, Giulia Zampolo di Milano,
Grazia Volo di Palermo e Alfonsina Landi di Salerno. La segnalazione
dei gruppi femminista nasceva dalle conferenze promosse dal
professore Agostino Sanfratello in cui si parlava delle donne che
abortivano come assassine, nonchè la distribuzione dei depliant
“Aborto è omicidio” in tutte le parrocchie. In particolare,
durante una di queste conferenze, una delle autodenunciate, Nadia
Caragliano, ha raccontato di essere stata apostrofata personalmente
come assassina.
La difesa ha dimostrato la falsificazione di dati e statistiche
relative ai numeri dell’aborto, nonché la diffusione di
informazioni erronee, accompagnate da immagini raccapriccianti.
Da battaglia legale a battaglia politico, questo processo ha smosso
le coscienze non solo di migliaia di donne, ma anche di tantissime
realtà che hanno manifestato sostegno e appoggio, confrontandosi
dunque con l’urgenza di una risposta reale rispetto all’aborto e
a tutte le pratiche di autodeterminazione sui propri corpi e sulle
proprie scelte.
Il processo, come nella migliore tradizione, si è concluso con una
multa di 100mila lire per le femministe e il pagamento delle spese
processuali per danni morali. La sentenza giunge a soli tre giorni
dall’approvazione della legge 194/78, legittimando, di fatto,
l’impegno di chi si era prodigata per combattere una campagna
violenta nei confronti di tutte le donne.
Ieri come oggi, al rumore della disinformazione e delle pratiche
violente di assoggettamento, l’unica risposta possibile appare
quella dei nostri corpi, delle nostre lotte, e della collettività
femminista. Perché l’aborto parla anzitutto di noi, della nostra
storia, del diritto di decidere e di scegliere, scegliere noi,
sempre.
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