Il mio aborto, i nostri femminismi




Albalisa Sampieri è una donna, una femminista che con coraggio ha lottato insieme a tante compagne per permettere alle donne di abortire in sicurezza e condivisione, ancor prima dell'avvento della legge 194/78 e che ancora oggi traccia e percorre la tortuosa strada dei diritti. Ringraziamo Albalisa per aver condiviso con noi il suo aborto e una parte delle sue lotte politiche e transfemministe.
Insieme noi stiamo benissimo!



"Era il 1972 quando rimasi incinta per la seconda volta. Mia figlia aveva 2 anni ed era stata frutto di una scelta decisamente contro corrente, almeno per quei tempi. Senza nessuna incertezza, avevo deciso di portare avanti quella gravidanza e l'avevo fatto con un gesto di coraggiosa disobbedienza o di estrema incoscienza: rifiutandomi di sposare il padre anzi tenendone ostinatamente nascosto il nome. Sfidavo le convenzioni, l'immaginario che mi voleva madre nubile (orrenda definizione che popolarmente poteva tradursi in "troia" o al meglio "sedotta abbandonata) e, non ultima, la mia famiglia, sorpresa dall'avvenimento e inizialmente ostile. Di fatto, per chiudere questa parentesi, con quella prima gravidanza avevo abbondantemente e definitivamente esaudito il mio desiderio di maternità.
Dunque anche per quella seconda, imprevista gravidanza, non avevo dubbi: avrei abortito, ma il problema era come? A chi avrei potuto chiedere aiuto? L'aborto era ancora clandestino, finivano in galera le donne che lo sceglievano, finivano in galera chi le aiutava, medici, ostetriche, "mammane", ma alle donne spettava "un premio" in più oltre al rischio della loro vita ovvero il senso di colpa che una società fortemente segnata da un profondo moralismo misogino, assegnava loro in maniera pressoché esclusiva e senza assoluzione alcuna. Il femminismo non aveva ancora fatto irruzione nello spazio pubblico o almeno non nello spazio della mia città, posta ai confini dell'impero, sepolta nel classico perbenismo della provincia italiana, dove tutto si sa, ma niente si dice.
Poi, ancora una volta e come succederà in altre occasioni "sfortunate" della mia vita, mi soccorse un'amica che non solo mi passò un importante contatto, ma si offrì di anticiparmi la cifra necessaria che altrimenti non avrei saputo come trovare (200.000 lire! Il mio stipendio mensile di dipendente universitaria non superava le 150.000 mensili).
Insomma, presi, con grande prudenza, i contatti necessari, mi trovai da lì a poco nell'ambulatorio di un medico che senza troppi complimenti, senza un minimo di anestesia, ma tutto sommato con perizia ed il giusto livello di igiene, mi praticò un raschiamento. Ma di quel giorno ricordo, esattamente come se fosse successo ieri, due cose: il senso di pericolo dovuto alla paura di essere scoperti e alla fine, fuori da lì, una profonda sensazione di liberazione. Era come essere uscita da una malattia grave per la quale potevo rischiare la vita ed avvertire che tutto questo invece era stato un brutto sogno, consegnato al passato, al già vissuto, mentre la vita mi sorrideva ancora! No, non ho avuto per un solo momento sensi di colpa, ero invece felice che il mio corpo si fosse dimostrato forte, capace di resistere al dolore, di ridimensionarlo addirittura.
Ma un'altra cosa ben più importante era successa dentro di me, in quelli spazi della coscienza evidentemente mai del tutto sopiti. Io vengo da una famiglia di comunisti, il mio babbo e la mia mamma non mi hanno mai risparmiato, seppur piccola, i racconti del loro attivismo, i motivi delle loro scelte e, non ultimo, volenti o nolenti, si sono trovati nelle circostanze di coinvolgermi in alcune scelte. Tra la fine degli anni 40 e l'inizio dei 50, a seguito dell'attentato a Togliatti, per esempio, ci fu una feroce repressione nei confronti degli abitanti di Abbadia San Salvatore (un paese minerario vicino Siena), rei di aver preso le armi a seguito di quell'attentato. Domata "la rivolta", molti di loro finirono in galera, altri persero il posto di lavoro, in entrambi i casi, consegnando le loro famiglie ad un destino di ulteriore miseria.
Per questo, in totale clandestinità, si raccoglievano vestiti, generi alimentari e, non ultimi, soldi. Per questi, il punto di raccolta era la nostra casa, sottoposta periodicamente a perquisizione da parte della polizia.
In qualche modo però venivamo avvisati con un pò di anticipo e mio babbo non trovava soluzione migliore di quella di legarmi intorno al corpo, sotto il pigiama, questi foglioni da 50 e 100 lire, così che al mattino quando la polizia arrivava, io venivo svegliata e spedita fuori casa con il cane lupo che controllava che nessuno mi si avvicinasse.
A parte il forte prurito notturno, io ero orgogliosissima di questo ruolo che mi veniva affibbiato con serietà e convinzione a partire dal fatto che quei soldi sarebbero serviti ai bambini badenghi altrimenti ingiustamente condannati ad una vita di stenti. Credo che se un poliziotto si fosse avvicinato anche solo per una carezza, l'avrei morso prima del cane, tanto ero disposta a difendere quel prezioso malloppo!
Rispetto a questo imprinting, io sarei potuto crescere in antitesi o in corrispondenza e certamente la mia parte di disobbedienza l'ho agita, ma mantenendo vivo dentro di me un grande amore per le libertà e soprattutto un profondo senso di solidarietà. Ho voluto raccontare questo aneddoto per spiegare la maturazione di scelte conseguenti alla mia esperienza di aborto, sì perché quegli spazi di coscienza mai sopiti di cui parlavo poc'anzi, affondavano lì, nella mia infanzia, in quell'irrinunciabile anelito di bambina protagonista orgogliosa di un atto di giustizia.
Quindi, sollevata felicemente dall'ingombro di una gravidanza non desiderata, iniziai a prendere parte attiva in prima persona a tutte le fasi che precedettero e seguirono l'entrata in vigore della legge 194. Lo feci militando nel Movimento di Liberazione della Donna, coadiuvando il C.I.S.A. (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto) nel percorso politico che andò dalle autodenunce per procurato aborto alla raccolta di firme per la sua depenalizzazione, alla creazione di gruppi clandestini organizzati che procuravano aborti operando con professionalità e dando vita alla prima esperienza di consultori autogestiti fondati sulla pratica del self-help.
Avvenne qui l'incontro con il femminismo, quella fantastica rivoluzione delle coscienze che ancora mi anima e che all'epoca, mi pose per sempre all'opposizione di una società patriarcale che operava un controllo e un condizionamento a senso unico, sanzionando i nostri corpi e le nostre vite.
Con alcune donne organizzammo anche a Siena un consultorio autogestito, avvalendoci inizialmente della collaborazione di ginecologhe compagne di lotta. Io imparai presto un nuovo metodo abortivo più sicuro e meno invasivo che si andava velocemente diffondendo: il metodo Karman, dal nome dell'inventore dell'apparecchiatura che consentiva di "aspirare" l'ovulo senza raschiare l'endometrio. Il nostro consultorio, pur operando nella clandestinità, divenne presto un punto di riferimento per le donne che decidevano di interrompere la gravidanza, sia perché i costi erano "politici" (ma anche pari a 0 se la donna non disponeva di denaro) sia perché le condizioni di sicurezza erano le più elevate possibile, ma, non ultimo, anche perché si instauravano rapporti di solidarietà, di aiuto psicologico; negli incontri che precedevano l'aborto, si condivideva paure, dubbi e soprattutto si lavorava molto sui sensi di colpa, sullo stigma che pesava visibilmente su ciascuna di quelle donne che raramente avevano la solidarietà dei loro uomini o della loro famiglia in generale.
Ovviamente, data la situazione di clandestinità, i rischi non erano indifferenti, ma, seppur lentamente, nacque una grande mobilitazione solidale ed eravamo in tante e in tanti a rischiare la galera, oltre alle donne che abortivano.
Di fatto, stavamo agendo politicamente per smascherare l'ingiustizia e l'ipocrisia e portando in emersione la piaga degli aborti clandestini; così dentro di me la bambina "incartata" nei soldi destinati ai compagni di Abbadia San Salvatore, si agitava felice e sicura che quello che stava facendo non poteva essere minimamente inquinato né dalla paura delle denunce (che pure subii, costandomi un giorno e una note in prigione) né tantomeno dai sensi di colpa.
L'approvazione della legge 194, se da una parte fu un sollievo, non rappresentò, almeno per me, il traguardo auspicato: l'obiezione di coscienza e l'eccesso di regole che esprimono il carattere reazionario e restauratore dell'intervento statale, nonché la piena restituzione del controllo ai medici e alle strutture pubbliche, inadatte, ma anche indifferenti a qualunque azione diversa dalla mera esecuzione dell'intervento, hanno rappresentato fin da subito un grande ostacolo al cammino di autodeterminazione delle donne.
Insomma, una legge specchio di un immaginario culturale che continua a rappresentare come "positivo assoluto" il ruolo di madre e come "assoluto negativo" la decisione di una donna che non vuole una gravidanza.
Questa posizione fortemente critica della L. 194, espressa inizialmente da molte femministe (ricordo una splendida tavola rotonda organizzata da Quotidiano Donna, giornale con il quale collaboravo) si esaurì a mio avviso troppo presto, spazzando quel pensiero forte, originale e trasgressivo che mi aveva animata e che oggi spero di ri-scoprire nelle nuove generazioni."



Albalisa Sampieri, un sabato sera del marzo 2019


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